La Corporate Social Responsibility (CSR), o Responsabilità Sociale d’Impresa, è diventata così rilevante da essere sbandierata come priorità nelle strategie delle principali corporation globali.
Sono sempre di più gli Amministratori delle multinazionali, anche e soprattutto le più influenti, che dichiarano di voler cambiare completamente il paradigma fondativo delle proprie aziende. L’impostazione classica che definisce la ragion d’essere di un’impresa nella capacità di generare guadagno, è oggi accompagnata da una visione orientata a condividere il valore generato dal business con la società civile, gli individui e l’ambiente.
Basta cercare annunci pubblici di CEO di aziende come Cisco Systems, Ibm, Apple, Amazon, VMware, Walmart, JP Morgan Chase, General Motors, Boeing e molte, molte altre che sostanzialmente recitano tutte: non si fa business se non c’è etica, il valore prodotto non può rimanere solo agli azionisti, deve permeare chiunque contribuisca a produrlo, dipendenti e clienti insieme a tutta la società e al territorio che abita, ovvero tutti gli stakeholder. È giunto il tempo della creazione di valore condivisa …
Dal punto di vista formale, la Corporate Social Responsibility aziendale, come viene ufficialmente definita nel 2001 dalla Comunità Europea, è «l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate».
In un mercato globale il concetto di stakeholder (l’insieme di azionisti, clienti, dipendenti, fornitori, la comunità con cui l’organizzazione interagisce) è anch’esso di portata mondiale, e non c’è ambito d’impresa oggi che non debba curare la propria reputazione agli occhi dei cittadini. Soprattutto se i cittadini diventano sempre più consapevoli e sensibili al tema della sostenibilità, economica e ambientale e del rapporto con il territorio, anche nelle proprie scelte di consumo.
Le imprese sono oggi chiamate a integrare negli obiettivi di business la dimensione sociale e ambientale, secondo un approccio di management che tenga conto non solo della generazione di risultati economici, ma dell’intero impatto che l’impresa produce, attraverso il suo operato, sulla società e sull’ecosistema in cui operano.
Di fatto, si sta progressivamente passando da una logica imperniata sul valore economico, la cosiddetta logica One Bottom Line (la classica ultima riga del bilancio, quella in cui sono riportati i profitti conseguiti), a una Triple Bottom Line, per rendere conto a consuntivo sull’adempimento delle proprie responsabilità nei confronti dei vari stakeholder in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale. La triple bottom line, considerata nell’ambito di un bilancio sociale, fornisce indicazioni, oltre che sui risultati dell’esercizio, sulla consistenza complessiva del patrimonio sociale. Permette, cioè, di valutare la ricchezza prodotta e distribuita da un’impresa nello svolgimento della propria attività, tenendo conto sia degli effetti sociali prodotti sia dell’impatto ambientale delle proprie attività.
Si tratta però di azioni volontarie e non obbligatorie, anche se ne viene riconosciuta l’importanza: si parla più che altro di volontariato aziendale e donazioni (tipicamente donare parte del ricavato), mentre oggi il concetto di Corporate Social Responsibility aziendale è molto più ampio. Coinvolge ogni aspetto della vita aziendale, anche il clima lavorativo, la parità di genere (cosiddetta diversity), per citare due temi d’attualità, quindi ciò che accade in azienda e fuori dall’azienda, con uno sguardo che va ben oltre il breve termine proiettando l’impresa avanti nel futuro e riflettendo sul futuro, cosa rimarrà alle prossime generazioni. Una questione di sopravvivenza, ma anche d’immagine, molto importante in una società totalmente connessa e sempre più “social”.
Tornando in Europa, la Comunità Europea ha recentemente messo mano alla direttiva 2013/34 relativa ai bilanci d’esercizio e consolidati imponendo alle imprese di maggiori dimensioni, oltre 500 dipendenti e fatturato oltre i 40 milioni di euro, la rendicontazione delle informazioni non finanziarie. Un allineamento a qualcosa che molte imprese già facevano, avendo colto rapidamente il trend generale di interesse da parte dei consumatori o in generale l’attenzione anche della stampa e dei social verso i comportamenti etici di chi fa business. Prime tra tutte le imprese con brand consumer, a diretto contatto con le persone, dalla moda all’alimentare, per esempio Johnson & Johnson, Unilever, Nestlé, Coca Cola, Ferrero, e quelle dalle quali, per definizione, ci si aspetta un comportamento più che etico, come le associazioni di consumatori, in Italia la Coop.
Di fatto già nel 2017 a redigere un report CSR era il 78% delle aziende multinazionali del mondo, secondo l’indagine KPMG, anche perché alcuni studi hanno evidenziato la stretta relazione tra CSR e le performance finanziarie delle aziende, si pensi soprattutto a quelle quotate in borsa e alle scelte degli investitori o dei fondi d’investimento, oggi sempre più orientati all’etica.
Va detto che l’Italia è tra i pionieri nella CSR poiché la legge 254/2016 imponeva già l’obbligo dell’inserimento nel bilancio appunto per le aziende quotate in borsa. Non a caso l’Osservatorio Socialis, già nel 2017 quantificava in 1,4 miliardi di euro l’investimento in CSR delle aziende italiane, con tassi di crescita del 25% l’anno.
La passione per il CSR coinvolge prima di tutto le aziende quotate in borsa. I settori economici più ricettivi, secondo Socialis, sono il chimico della gomma o plastica, quello meccanico e dell’automobile, quello finanziario, il commercio, e poi elettronica, informatica e telecomunicazioni.
Tornando negli Stati Uniti, l’agenda Tech4Good coinvolge imprenditori e anche appassionati di IT e tecnologia digitale alleati a sostegno del no-profit e impegnati a rendere migliore il mondo e la vita delle persone. Molte aziende, fra le prime fra tutte Microsoft, non solo investono direttamente in iniziative di volontariato aziendale, nel miglioramento della vita dei dipendenti e delle comunità nelle quali sono presenti, ma si impegnano direttamente, con il proprio know-how e la potenza di fuoco da multinazionale, per sviluppare soluzioni tecnologiche, nuove idee e attività non direttamente focalizzate al profitto. Anzi, orientate a un miglioramento generale della vita delle persone e alla conservazione dell’ambiente.
Per questo scopo sviluppano Fondazioni, separate dall’azienda ma collegate inequivocabilmente dal nome che portano, a ulteriore sostegno delle iniziative responsabili. È il caso di VMware, con la VMware Foundation, o di IBM con una sua fondazione che si occupa di tutto quanto concerne la CSR che, emerge chiaramente, è un grande lavoro di relazioni, oltre che di strategia di comunicazione.
Al marketing e agli esperti di comunicazione resta il difficile, ma importantissimo, compito di comunicare la Corporate Social Responsibility in maniera adeguata, senza essere autocelebrativi o suonare falsi con campagne di comunicazione e sponsorizzazioni con toni eccessivi. Occorre una strategia ad hoc, magari pensando a diversi gradi di coinvolgimento del brand aziendale nelle attività di CSR, in base al tipo di business e agli obiettivi prefissati. Alcuni infatti scelgono di separare completamente business e CSR e di non utilizzare gli investimenti per il sociale nelle campagne di marketing, per non correre il rischio di essere accusati di socialwashing o greenwashing, in sostanza, di una sostenibilità di facciata.
Fa bene ricordare, in chiusura, che i padri costituenti italiani ritenevano così importante il tema da averlo inserito in un apposito articolo, l’articolo 41, che recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
Da una recente indagine BVA Doxa, emerge che la Corporate Social Responsibility è poco conosciuta dagli italiani: solo il 20% sa effettivamente di cosa si tratta. La survey evidenzia anche un certo grado di scetticismo: fra chi la conosce il 47% crede che le attività di CSR «siano operazioni di facciata e non concrete». Malgrado ciò, sempre più italiani ritengono importante essere messi al corrente della condotta di responsabilità sociale dei brand di cui è cliente.
Tra le critiche si leva la voce che la CSR sia qualcosa “che si mette in atto solo per compiacere cittadini e stakeholders ricevendone in cambio un buon ritorno di immagine”.
E il punto è…e allora? Anche se così fosse che problemi sorgerebbero? Creare benessere in modo etico e sostenibile comunque porta dei vantaggi alla comunità ovvero a tutto quell’ecosistema definito come costellazione del valorecomprendente tutti i portatori di interessi che si relazionano con l’impresa.
E’ logico che il fine potrebbe non essere la pura filantropia, ma lo scopo di fare branding tuttavia prevalgono gli aspetti positivi, di gran lunga …